10 anni di Mons. Spinillo ad Aversa: l’omelia della Messa del 19 febbraio 2021

Celebrazione eucaristica nel 10° anniversario di inizio del ministero episcopale in Aversa

Cattedrale, 19 febbraio 2021

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“… e giro attorno al tuo altare, o Signore, per far risuonare voci di lode…” (Sal 26 (25), 6-7)

 

Carissimi Confratelli Sacerdoti e Diaconi,
carissimi Seminaristi,
Religiosi, Religiose, fratelli e sorelle tutti.

Se dovessi dare un titolo, oggi, a questo momento di celebrazione e di riflessione, prenderei le parole del Salmo 25 che recita “… e giro intorno al tuo altare, o Signore, per far risuonare voci di lode…” (Sal 25 (26), 6-7). Posso dire che in queste parole vedo come il naturale compimento di quanto, ogni giorno, fa risuonare in me il versetto evangelico “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Mt 10,8). Infatti, se il contemplare l’infinita libertà, la stupenda gratuità dell’amore di Dio mi dona la grazia di essere chiamato da Gesù a vivere con Lui come figlio che corrisponde e partecipa all’amore del Padre e dei fratelli, nel versetto del Salmo 25 contemplo la grazia di poter vivere, con tutta la Chiesa, come un’eterna liturgia di lode nella partecipazione al sacrificio del Cristo che sull’altare ci dona l’inestimabile grazia della comunione con Lui, nostro fratello e Signore, con Dio nostro Padre e lo Spirito Santo.

 

Nel rendimento di grazie il saluto di pace

Nell’accogliere ancora, oggi, l’invito del Signore ad accostarmi con voi al suo altare per celebrare il mistero sacramentale della sua presenza tra noi, del santo sacrificio nel quale Egli ci dona di vivere con Lui la nuova ed eterna alleanza, sento che l’unica parola che posso dire è “grazie”. Grazie a Dio Padre ed a voi tutti, fratelli e sorelle.

Il “grazie” a voi, confratelli Presbiteri e Diaconi, e a tutti i fratelli e sorelle che la Provvidenza mi ha dato di incontrare per camminare insieme orientando la nostra vita verso il regno di Dio, trova il suo ampio e pieno compimento nel “saluto di pace”, proprio dei discepoli di Gesù Cristo. Il “grazie”, infatti, è il riconoscere la gratuità del bene ricevuto, che, proprio perché disinteressato e libero, assoluto, ovvero sciolto da ogni tipo di condizionamento egoistico, è invito, è vocazione a viverlo ancora e sempre più intensamente, e genera “pace”. Infatti, se riconosciamo la paternità di Dio dal quale viene ogni bene, così riconosciamo la fraternità che condivide la grazia, il“dono perfetto” che viene “dall’alto” (Gc 1,17), come dice l’Apostolo Giacomo.

Ritrovarci oggi a celebrare i dieci anni di cammino insieme nella nostra Chiesa diocesana è desiderio di poter dire ancora il nostro comune ringraziamento al Signore, ma anche a ciascuno dei fratelli e sorelle che Dio ci ha messo vicino, e condividere la speranza di vivere più intensamente la “pace”, la libertà di crescere nella carità e nella fraternità.

 

Un solo Spirito, diversi carismi

Giustamente, in questi giorni, un confratello, riferendosi, ovviamente a me, in un messaggio mi ha scritto un augurio in occasione, diceva, del “vostro – e aggiungeva tra parentesi – (nostro) decimo anniversario di episcopato ad Aversa”.

È vero: questo anniversario è di tutti noi. Oserei dire che è di tutti noi nella consapevolezza piena di gratitudine per il bene che insieme abbiamo potuto condividere in questi dieci anni e anche, purtroppo, nel riconoscere le fatiche che i miei limiti, e, quelli di ciascuno di noi hanno potuto causare a tutta la comunità ecclesiale e sociale.

La ricorrenza che oggi celebriamo, però ci invita ad alzare lo sguardo e a ritrovare il senso e la bellezza del nostro essere Chiesa nelle luminose parole di San Paolo che nella prima Lettera ai Corinti, dopo aver invitato i fratelli di quella Chiesa a considerare che “Vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito”, con un’espressione che mi ha sempre affascinato, affermava: “A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune” (1Cor 12, 4,7).

Questa espressione mi ha sempre affascinato perché ci permette di considerare i “carismi”, di cui ciascuno di noi è dotato, come doni dello Spirito e non come dei semplici talenti personali. Purtroppo quando parliamo di talenti personali, cadiamo facilmente nel rischio di scambiarli per forme di capacità individuali da usare anzitutto per soddisfare, o come spesso diciamo, per realizzare noi stessi, secondo la nostra personale soggettività. Al contrario, l’Apostolo ci invita a riconoscere che i “carismi” sono il segno della presenza dello Spirito di Dio nella nostra vita, e che le nostre capacità, pur contribuendo a caratterizzarci nella nostra forma personale, sono il dono di Dio Padre che ci ha creati “unici”, “particolari”, “irripetibili”, e perciò capaci di essere protagonisti di dialogo con Lui, con lo stesso nostro Creatore e, quindi anche con i fratelli, protagonisti di una storia di comunione e di servizio reciproco. In altre parole, diciamo che lo Spirito di Dio, senza annullare la nostra individuale personalità, ma valorizzandone l’unicità ed il carattere suo proprio, ci rende capaci di pensare, di agire e di operare riconoscendo che i nostri carismi, la nostra persona, e ogni nostra capacità sono dono di Dio, sono vocazione a vivere in comunione con la gratuità del suo amore e, quindi, ad essere, con la ricchezza delle nostre diversità, ministri della carità del Padre, partecipi pienamente della sua opera e della sua vita.

In questa prospettiva, trovo significativo che nelle diverse parabole in cui, nel Vangelo, Gesù racconta di talenti o di mine, di monete d’oro affidate ad alcuni servitori mentre il loro padrone va in terre lontane, nel momento in cui questi ritorna, gli stessi servitori vadano a presentargli il risultato delle operazioni che hanno compiuto, e anzitutto riconoscono che quanto gli era stato affidato apparteneva al loro padrone che li riconosce come “servo buono e fedele” degno di prendere “parte alla gioia del … padrone” (Mt 25, 14-30).

Molto lontano dalla nostra logica di mercato della prestazione d’opera che esigerebbe una ricompensa per far vivere quei servitori in maniera autonoma e separata dalla vita del loro padrone, Gesù ci fa comprendere la grande grazia, che è data anche a noi, di essere chiamati a partecipare delle opere che Egli stesso ci affida e condividere, e vivere con Lui la sua stessa vita e la sua azione creatrice. Quei servi, perciò, non sono presentati come schiavi di un potere esigente, ma sono chiamati a vivere la grazia di essere “amici”, scelti e costituiti per portare molto frutto, come ci ha detto il Vangelo di Giovanni (Gv 15, 9-17) che abbiamo appena ascoltato.

 

Membri del corpo di Cristo    

Nella stessa prima Lettera ai Corinti, l’Apostolo Paolo utilizza la metafora dell’unità del corpo nella varietà delle sue membra per spiegarci che nella Chiesa, la singolarità di ciascuno va rispettata ed onorata, ma che tutti i battezzati siamo chiamati ad essere uniti al Cristo come al capo. Se, per analogia con il nostro corpo, diciamo che il capo non è soltanto il centro vitale di ogni funzione della nostra persona, ma è anche quella parte della nostra persona che entra in relazione con la vita, che comunica con le persone, che manifesta le emozioni e le attenzioni, che pensa e decide, che, insomma, rivela il carattere e la tensione di tutto il nostro essere, così, nella Chiesa tutti i fedeli, agendo secondo i carismi e le capacità che Dio ha donato a ciascuno, siamo, però caratterizzati, guidati, uniti dalla presenza del “capo”, dalla nostra unione con Cristo Signore.

Citando proprio il brano di S. Paolo agli Efesini che abbiamo appena ascoltato come prima lettura in questa celebrazione, il Concilio Ecumenico Vaticano II, nella costituzione dogmatica Lumen gentium, ha spiegato che il Cristo, “nel suo corpo che è la chiesa … continua a dispensare i doni dei ministeri, e dà valore a quei servizi che ci prestiamo vicendevolmente per la nostra salvezza, affinché, viventi secondo la verità nella carità, abbiamo a crescere in vista di lui che è il nostro capo” (Lg 7).

Ecco, allora, perché oggi siamo riuniti in assemblea santa: per celebrare la grazia del Signore che ci chiama tutti a vivere nella Chiesa, nella nostra Chiesa locale come un corpo del quale ciascuno è membro vivente, organicamente legati all’unico capo che è Cristo Signore. Di questo corpo, della nostra Chiesa siamo, quindi, tutti corresponsabili, ciascuno con i carismi che lo Spirito gli ha donato, ciascuno con la sua specifica presenza, ma tutti orientati, nelle diversità delle vocazioni e delle forme, ad annunziare e testimoniare la carità.

Dissi questo anche dieci anni fa, nell’omelia della celebrazione di ingresso in questa nostra Chiesa: “La Chiesa è tale perché riconosce ed accoglie la vocazione alla comunione propria dei figli con il Padre, e, con Gesù, offre al suo Dio e Padre la propria disponibilità alla missione, ad essere mandata ad annunziare e a condividere con tutti i fratelli la carità che lo Spirito effonde nel cuore dei credenti”.

Vi confesso che quando, proprio dieci anni fa, fui inviato a vivere il ministero della carità insieme con voi, non conoscevo quasi nulla di questa nostra Diocesi. Sapevo che una quindicina di anni prima un prete era stato ucciso dalla camorra e avevo sentito che qui c’era una struttura di accoglienza per ammalati e disabili che era il “Cottolengo”. Pensai, allora, come mio primo atto di andare subito a visitare la tomba di don Peppe Diana e, appunto, il “Cottolengo”. Delle due visite, la prima ebbe un notevole risalto, la seconda è passata un po’ inosservata. Il mio intento, in quel momento, però, era di rendere omaggio alla nostra Chiesa sia nella dimensione della carità che assiste i deboli, che nella dimensione dell’apostolato che vive ed annuncia il Vangelo in questa terra Per questo,  prioritariamente, intendevo salutare ed incontrare i sacerdoti, voi, confratelli che ogni giorno siete esposti a situazioni non sempre facili. Certamente c’era in me il desiderio di dire subito che non ci può essere collusione o acquiescenza a forme malavitose o prepotenti in possibili tentativi di condizionare la vita della nostra Chiesa e della società, ma soprattutto, volevo dire che in Don Peppino Diana vedevo il lavoro e l’apostolato di tutti voi, confratelli, tanto impegnati nel ministero sacerdotale in questa terra, che è vostra ma che già sentivo di poter dire nostra, anche mia. Sebbene fossi l’ultimo arrivato, volevo dire tanta riconoscenza e fraterna attenzione a voi sacerdoti, e che da quel momento sarei stato sempre al vostro fianco, in mezzo a voi, a camminare con voi, con la nostra gente, come figli di Dio, insieme, in fraternità, verso il bene, verso la giustizia, verso la vita.

 

Non un bilancio ma tanta speranza

Se dieci anni di cammino ci permettono ora una sosta, nel dialogo in fraternità sarebbe facile pensare di dover fare un bilancio.

Non ho questo desiderio perché penso che nell’apostolato, nella vita di fede non si possa fare un bilancio come calcolando numeri di attività e di quantità che si possano misurare e paragonare tra loro. La vita, in sé, non si può misurare con i nostri ordinari strumenti di calcolo, e nemmeno la fede, la speranza o la carità. Se Gesù ci ha detto che “Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli … non perderà la sua ricompensa” (Mt 10, 42), o “se avrete fede pari a un granello di senape, direte a questo monte: «Spostati da qui a là», ed esso si sposterà…” (Mt 17, 20), o che una povera donna, vedova, che ha gettato nel tesoro del Tempio “due monetine, che fanno un soldo, … ha gettato più di tutti gli altri” (Mc 12, 42-43), non possiamo fare bilanci misurando la nostra vita con criteri e parametri di misura fondati sulle nostre abitudini di giudizio. Non ci serve tentare un bilancio con il rischio di cadere nella tentazione di vantare meriti. Nemmeno l’efficienza o la bravura che ci fosse riconosciuta da altri per le nostre attività o per le opere di apostolato potrebbero permetterci di calcolare o di valutare il nostro agire ed il tempo che viviamo. Ancora ci illumina la parola del Signore Gesù che nel Vangelo di Luca, narra che “due uomini salirono al tempio a pregare”: uno dei due presentò al Signore un lungo elenco di meriti per le cose buone che riteneva di aver fatto osservando la Legge, l’altro, invece, “fermatosi a distanza non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo «O Dio abbi pietà di me peccatore». …questi… tornò a casa sua giustificato…” (Lc 18, 10-14).

Consapevole, allora, della mia insufficienza, ma fiducioso nella grazia di Dio che già abbiamo sperimentato e vissuto, insieme con voi, confratelli carissimi, sento oggi di voler presentare al Signore la rinnovata disponibilità a vivere il ministero sacerdotale a servizio della nostra Chiesa in una più consapevole ed intensa fraternità. Per questo, come un augurio per tutti noi mi piace ripetere i versi del Salmo 25: “… e giro attorno al tuo altare, o Signore, per far risuonare voci di lode…” (Sal 26 (25), 6-7).

È bello il gesto che la liturgia ci fa compiere quando giriamo intorno all’altare e, come sacerdoti, a nome di tutta la Chiesa, con l’offerta dell’incenso onoriamo il Cristo Signore e partecipiamo alla sua offerta, al sacrificio gradito a Dio. Ci auguriamo che nella celebrazione dell’Eucaristia questo gesto rituale sia sempre per tutti noi come un canto di lode e di ringraziamento, di elevazione dell’anima alla comunione con il Signore nell’offerta di noi alla sua carità.

 

Concludo con l’augurio di poter continuare insieme il nostro cammino coltivando sempre l’aspirazione a vivere una fraternità ampia, generosa, nella Chiesa e con l’umanità tutta, come recentemente Papa Francesco ci ha proposto con l’enciclica “Fratelli tutti”. In essa il Papa ha condiviso con tutti noi e con il mondo intero il suo desiderio di “far rinascere tra tutti un’aspirazione mondiale alla fraternità” e riprendendo il tema a lui caro dei sogni e delle visioni che animano il dialogo tra le generazioni e possono proiettare l’umanità verso orizzonti nuovi di vita e di pace, ci invita a considerare che è “importante sognare insieme. Da soli – egli dice – si rischia di avere dei miraggi, per cui vedi quello che non c’è; i sogni si costruiscono insieme” (Ft 8).

Sapientemente il Papa ha parlato di aspirazione alla fraternità. Non ci ha detto che facilmente la troviamo già realizzata. Papa Francesco ci incoraggia a credere alla vocazione alla fraternità che Dio Padre ci dona di poter vivere per costruire l’umanità ricca di bene secondo la sua volontà. Chi crede, chi ha davanti agli occhi del cuore e dell’anima la visione delle realtà nuove che la fede ci offre, impegnerà sempre tutto sé stesso, insieme con Gesù offrirà sé stesso con gioia e speranza perché il regno di Dio si diffonda nel mondo.

Grazie, confratelli carissimi, per quanto donate alla nostra Chiesa ed a me nella grazia di condividere la stessa vocazione. Non abbiamo timore, come dice il Papa, di poter sognare insieme, di costruire insieme, ciascuno con il proprio carisma, la nostra Chiesa come famiglia di figli dell’unico Padre, raccolta intorno al Cristo Signore, resa feconda di vita dallo Spirito di carità.

+Mons. Angelo Spinillo