“Le Chiese locali facciano di tutto per non lasciar perire la memoria di quanti hanno subito il martirio”. Così diceva il Papa Giovanni Paolo II di v.m. durante il Giubileo del 2000, in occasione della Commemorazione dei Testimoni della Fede.
“Una chiesa che dimentica i suoi martiri non è degna di sopravvivere”, ribadiva ai suoi cristiani Mons. Pedro Casaldàliga, Vescovo di S. Felix (Brasile).
Anche la Chiesa di Aversa ha un debito di riconoscenza verso sei suoi missionari che un giorno, come altri, hanno lasciato la loro terra e i loro affetti per farsi vicini a gente abituata da sempre a subire.
Testimoni miti, ma decisi, non hanno dimenticato che essere cristiani vuol dire fare la scelta dei più poveri. Fino in fondo.
A guardarle più da vicino, le loro storie si assomigliano: in tempi e luoghi diversi, con carnefici che hanno altri nomi, tutti sono stati eliminati perché divenuti testimoni scomodi.
Niente sorprese, quindi.
La loro era una morte prevedibile: “Perché là c’è la speranza di morire martire”, aveva confidato un giorno P. Mario Vergara (1910-1950) – PIME – nativo di Frattamaggiore, al compagno di seminario Don Giuseppe Rocereto della Diocesi di Caiazzo, che lo dissuadeva dal farsi missionario. Non si sbagliava. “Vado ad aprire un nuovo distretto. Lì non troverò né casa né alcun conforto,” scriveva il 15 dicembre 1946.
Tutti l’hanno messo in conto il martirio, chi più, chi meno.
E senza timori: “ La mia vita non importa” confesserà in tutta onestà P. Antonio Canduglia (1861-1907)- CM – nativo di Aversa, davanti alle varie intimidazioni durante la persecuzione dei boxer all’inizio del novecento nella lontana Cina”. A chi lo invitava a salvare la propria vita,con estrema decisione e convinzione così rispondeva: “Avete dimenticato che un pastore dovrebbe dare la vita per le sue pecore?” .
Nessuno sconto, quindi, per questi martiri che prima di essere religiosi e missionari, hanno dovuto fare i conti con la loro umanità: “Dopo appena due anni nel lontano 1780 di intenso apostolato in Cina, P. Angelo Fusco (1856-1886) – CM – nativo di Cardito, si ammalò e pur di non rinunciare alla missione consentì di trasferirsi in Brasile” e, come scrive il Parroco Luigi Dell’Aversana Orabona, dalle sue lettere, “rivelava la dedizione al Signore,sempre pronto a morire per la sua gloria e la salvezza delle anime”.
Anche loro, uomini in cammino verso una pienezza di umanità, si sono scontrati con resistenze interiori, oltre che esteriori. Alla fine, però, hanno raggiunto il traguardo.
Vittoriosi. Per tutti, l’arma vincente è stata la medesima: quella dell’abbandono fiducioso e incondizionato a Dio. Senza riserve.
I frutti non sono mancati: dopo un lungo e paziente tirocinio, durato una vita intera, hanno superato a pieni voti anche la prova più impegnativa, quella finale, del perdono.
Non una parola di odio o di condanna infatti esce dalla loro bocca, neanche in punto di morte: “Perdona loro, Padre, perché non sanno quello che fanno ripeterà in fin di vita” P. Nunzio d’Orta (1722-1786) SJ, nativo di Giugliano, se è da credere a ciò che riferisce la tradizione popolare. Messo in carcere in odio alla sua fede, una lettera asserisce di “stare da molto tempo tra grandi travagli e disagi,tra dolori e pene,tra ceppi e catene confessando la S. Fede a Cristo, come anche davanti a tribunali esponendo, confessando e dichiarando la verità della S. Religione Cristiana”.
La testimonianza di queste persone che si sentivano uomini come altri,ricorda a tutti che è davvero possibile essere cristiani fino in fondo. Senza facili compromessi, senza rinunciatari pessimismi perché Dio comunque è più grande delle nostre lentezze, delle nostre incoerenze. Loro lo hanno fatto: si sono fidati, forti della convinzione che quel Dio che li inviava sulle strade del mondo ad annunciare il Suo amore non li avrebbe abbandonati.
Così è stato per P. Germano OP, nativo di Aversa, inviato dai superiori nel convento di San Domenico nell’isola di Ischia, dove nel 1544 subì il martirio per mano dei Turchi “per aver esortato donne e vergini del luogo a non cedere ai loro atti di libidine e di violenza”.
Come del resto, per l’altro martire della Chiesa Aversa P. Pietro (+1761) “Figlio di S.Francesco”, nativo di Grumo Nevano, ucciso in Macedonia per mano degli stessi turchi .
È per questo che la Chiesa di Aversa oggi può fare memoria di questi suoi figli che hanno saputo vivere da profeti e morire da martiri.
Questa nostra terra, terra di lavoro, terra di fuochi oggi, fa pure memoria di un altro suo figlio, don Peppino Diana (1958-1994), Sacerdote secolare nativo di Casal di Principe, che venti anni fa mentre si accingeva a raggiungere l’altare per offrire “alla Maestà divina, la vittima pura, santa e immacolata, pane santo della vita eterna e calice dell’eterna salvezza”, immolava se stesso per aver sottoscritto e gridato a squarciagola “Per amor del mio popolo non tacerò” .
Pensando a loro, tornano le parole di Giovanni Paolo II: ‘L’eredità che tutti hanno ricevuto da questi eroi della fede è bella e allo stesso tempo impegnativa, poiché comporta l’urgente compito di proseguire l’evangelizzazione’.
E in tempi recenti,Papa Francesco: “Un cuore missionario mai si chiude,mai si ripiega,mai opta per la rigidità autodifensiva… non rinuncia al bene possibile, benché corra il rischio di sporcarsi con il fango della strada.”
Questo in fondo, è il debito di riconoscenza che la Chiesa di Aversa ha nei confronti dei suoi martiri. Loro non staranno ad aspettare, inoperosi.
C’è da crederlo.
E’ questa innegabile certezza che fonda l’iniziativa realizzata con una VEGLIA ITINERANTE DI PREGHIERA incentrata sulla LITURGIA della PAROLA, che ha avuto luogo a cominciare giovedì 27 febbraio, alle ore 19, nella BASILICA PONTIFICIA di SAN SOSSIO, promossa dal Centro Missionario e dalla ZONA PASTORALE di FRATTAMAGGIORE-FRATTAMINORE per dare un “segnale” al territorio circa la valenza non solo religiosa e spirituale di un evento che ci coinvolge tutti, nella riflessione e nella preghiera, come membri della Comunità ecclesiale.
don Nicola Giallaurito
Ufficio Missionario