Il Beato P. Mario Vergara: Dio si comunica alle anime che lo amano

Introduzione
All’alba del 25 maggio 1950 a Shadaw nelle Birmania orientale – oggi Myanmar – il sacerdote missionario P. Mario Vergara ed il suo catechista laico Isidoro Ngei Ko Lat, legati mani e piedi, sono portati lungo un sentiero che costeggia il fiume Salwen. Lì sono uccisi a colpi di fucile dai ribelli Cariani, ostacolati dai missionari perché opprimevano le popolazioni, privandole anche dei viveri, per foraggiare la truppa. I loro corpi, rinchiusi in sacchi e abbandonati alla corrente del fiume non sono stati mai ritrovati. Solo il 31 agosto 1950 la radio locale darà notizia di due missionari arrestati e uccisi e dei loro cadaveri gettati nel fiume. P. Mario aveva 40 anni, P. Isidoro 32. Qualche tempo dopo P.Pietro Galastri subirà la stessa sorte.
Il 9 maggio 2014, per iniziativa delle Istituzioni Paritarie “Innico Caracciolo” della Diocesi di Aversa e in previsione della beatificazione del missionario P. Mario Vergara, martire della fede, che si è tenuta nella Cattedrale di Aversa il 24 maggio, è stata organizzata, da Mons. Angelo Crispino, Dirigente Scolastico, una Tavola Rotonda per docenti, alunni e famiglie, allo scopo di conoscere il nuovo beato, figlio di Frattamaggiore e alunno del Seminario Vescovile. Sono intervenuti per una testimonianza P. Marco Pifferi, Rettore del PIME di Ducenta, Mons. Sossio Rossi, Coordinatore comitato diocesano per la beatificazione, Prof. Lorenzo Costanzo, Segretario organizzativo e l’avv. Giuseppe Diana, della rivista “Mondo e Missione”, del quale riportiamo il testo della relazione introduttiva.

Relazione di Giuseppe Diana
Chiamato ad illustrare la “luce di verità”, che ha toccato il Venerabile Padre Mario Vergara, ho avvertito subito un senso di inadeguatezza alla bisogna, in quanto, trovandomi in presenza della Grazia, che sdegna le misure umane, credo che non vi siano parole acconce per illustrarne la figura e le opere ma che dobbiamo soltanto, per dirla col poeta “chinar la fronte al Massimo Fattor, che volle in lui del Creator Suo Spirito più vasta orma stampar”! E che si tratti di orme vaste non v’è dubbio alcuno da interporre: anche per questo cercherò di farlo al meglio.
VergaraCècile Kyenge, già Ministro per l’Integrazione e le Pari Opportunità, intervistata dalla rivista “Mondo e Missione”, ha dichiarato che il suo primo impatto con l’Italia è stato un missionario, che si è rivelato un vero angelo mandato sulla sua strada, perché l’ha presa a cuore, l’ha aiutata a trovare un posto dove stare, le è stato sempre accanto. Quella persona le ha offerto pure l’occasione di avvicinarsi al mondo della missione, consentendole di trascorrere alcuni periodi come volontaria in Africa. Questa testimonianza ci riporta, illic et immediate, ad uno scritto del Servo di Dio P. Vergara, il quale dice: “Anche se sei un pezzo grosso, ricordati sempre che tutto è vanità, tranne il fare il bene e che di questi tempi tu puoi asciugare molte lacrime”. E oltre: “Il mio cuore non ha fatto altro che rattristarsi nel vedere sterminati popoli, che vivono ignari di Dio e schiavi di satana”. E poi: “Ardo dal desiderio di spendermi per la salute di queste anime, che non sanno quanto è buono il Signore con quelli che lo conoscono e lo amano”.

Per tale via può dirsi che, espressione del pensiero della Chiesa secondo il modello del Vangelo, il missionario colloca sempre nel suo pentagramma spirituale l’evangelizzazione, l’insegnamento, la formazione, l’impegno ai problemi sociali e religiosi. Ma soprattutto, la sua particolare attenzione e il suo continuo aiuto sono riservati ai bisognosi, onorandoli con la sua scelta ascetica di uomo semplice, che respira la serenità nell’umiltà e la gioia nella povertà del suo apostolato. Inoltre, quel sacerdote, fiero della sua identità missionaria, fa della sua vita uno strumento di conversione e di lotta contro le ingiustizie umane, cantando Cristo e Maria, come estasi di un Dio, che è vero amore. Poiché il sacerdote è sempre una speranza lanciata verso il futuro, deve avere la capacità di vedere Cristo sul volto dell’uomo che incontra, questo perché il missionario, che si forgia e si completa nella fucina di un cuore, innamorato di Cristo, della natura e dei fratelli sparsi per le strade del mondo, deve essere immagine attraente di Gesù, radice e culmine della storia umana, in quanto sorgente d’amore.
Non a caso il giovane seminarista Vergara, a chi gli chiedeva perché volesse andare in Birmania, cioè così lontano, rispondeva senza esitazione: ”Perché là c’è la speranza di morire martire”! E’, quindi consapevole di poter soffrire fino al martirio per entrare nella gloria. Sentite, poi, cosa scriveva al cugino, freddo nell’amore verso Dio: “Caro Carmine, per conoscere Dio bisogna prima amarlo. Con Lui il processo va all’opposto che per l’amore delle cose: per queste bisogna prima conoscerle e poi amarle, per Dio invece bisogna prima amarlo e poi conoscerlo”. Si tratta di una “volontaria sottomissione”, in quanto “Dio si comunica alle anime che lo amano. In che consiste questo amore? Nell’indirizzo del nostro intelletto a Lui, cioè nel sottomettere senza riserve la nostra intelligenza a quanto Dio ha rivelato e la Chiesa insegna e comanda”. Coscienti che “per crucem ad lucem”, dobbiamo compiere il nostro “itinerarium mentis in Deum”,anche a costo di dover fare autofagia della ragione!
D’altra parte, la crescita nella fede delle comunità parrocchiali e diocesane del mondo è la dinamica dello Spirito, per donare alla Chiesa vitalità e credibilità. Accenderle nel petto l’ardore missionario, è l’unico modo, grazie al quale è possibile vedere come le opere nascondano in realtà il volto di Gesù, che cammina con noi sulle strade della vita. Pertanto, se vogliamo che l’uomo sia un cristiano praticante, è necessario animarlo di passione missionaria, della volontà salvifica di Cristo di portare il Vangelo ai non credenti. Riflettete su quel che accadde al giovane Mario quando, forti attacchi di appendicite lo costrinsero a sospendere gli studi e una peritonite lo ridusse in fin di vita. Egli ricorda : “Attorno a me tutti piangevano, io solo me la ridevo dentro di me, sapendo di non poter morire, perché dovevo andare missionario”! Accadde che guarì e subito si ingegnò nelle iniziative di animazione missionaria presso il Pontificio Seminario Campano di Posillipo.
“Gli alberi e le rocce non si spostano”, dicono gli indiani, i missionari non arretrano, perché fanno parte del loro vestito gli ardimenti a favore dei poveri e le opere caritative, assistenziali e sociali, la capacità di amore, di camminare gomito a gomito con i bisognosi e spingere le altre componenti del popolo di Dio ad assumersi le proprie responsabilità, onde far sì che gli esclusi superino tutto ciò che li condannano a restare ai margini della vita: è una dedizione fervida, tesa a vivificare dell’amore divino anche il mondo della fame: “mi hai fatto conoscere le vie dlla vita, mi colmerai di gioia con la tua presenza”.
Nel 1934 in Birmania, a Toungoo, uno sperduto villaggio della giungla, dove non ha un buco per abitarvi né una stuoia su cui stendersi, Padre Mario adatta una catapecchia abbandonata, abitandola “come capanna di bambù, dove vento e sole entrano liberamente. Per mobilio ho due sedie e un tavolino, fatto col coltellacci, per cibo un pò di riso condito con erbe di bosco”. Se piove ho il bagno a domicilio, proprio come i grandi signori… Eh, quando uno nasce fortunato!
Nel 1936 è inviato tra i monti di Citaciò, tra i Cariani, una delle tribù più povere e primitive. La sua attività a favore delle popolazioni dei villaggi è instancabile: formazione umana e cristiana, amministrazione dei sacramenti, cura di orfani e ammalati. Nel 1941, scoppiata la Seconda Guerra mondiale, Vergara, considerato nemico dagli inglesi, è internato nei campi di concentramento indiani. Sarà rilasciato quattro anni dopo, fortemente indebolito e rischiando la vita dopo l’asportazione di un rene. Tornato in Birmania ritorna tra i Cariani rossi. Osteggiato dai protestanti, si sobbarca ogni genere di sacrificio, coprendo lunghe distanze a piedi. Nel 1948, coadiuvato da P. Pietro Galastri, costruisce gli edifici utili alla missione: chiesa, scuola, orfanotrofio e dispensario. A seguito della guerra civile tra governativi e Cariani, il 24 maggio 1950 viene arrestato dai ribelli. Il giorno seguente è trucidato insieme al suo maestro catechista laico Isidoro Ngei Ko e i loro corpi sono gettati nel fiume Salween. Anche P. Galastri subirà la stessa sorte orrenda.
Alla luce di quanto suddetto, permettetemi di osservare, con S. Giovanni Crisostomo, che altro è essere prete, altro è fare il prete. Chi è prete, è una specie di “acrobata di Cristo”, che cammina sull’alto filo teso e fa la scelta di non cadere. I suoi spettatori sono una platea di popolo dalle dimensioni cosmiche ed un pianeta da trasformare in città di Dio: questo lo potrà fare soltanto se, il suo essere immagine attraente di Gesù, è inserito nella cornice stupenda di una vocazione, cui si addice fedeltà, scienza e carità. Solo se tale, il sacerdote è qualcuno e potrà insegnare quanto dolce e felice sia seguire le orme di Cristo, impegnandosi in una povertà evangelica, realmente vissuta e tesa a promuovere un livello alto di vita cristiana, che vede nelle Beatitudini il manifesto dell’amore, senza mai dimenticare che la fede è un dono.
D’altra parte, Aversa, da sempre terra di Sacerdoti, Vescovi e Cardinali, oggi lo è diventata anche di Beati e chissà che ciò non sia auspicio di futuri Santi. Non è senza significato che Padre Vergara abbia preceduto Padre Manna nella gloria con l’aureola del missionario e del martire, per cui, rifacendoci a San Francesco e a I Fioretti, continuiamo a chiederci: “perché dietro di loro tutto il mondo corre”? Questo si spiega in quanto il missionario diffonde le luci dello spirito per il nuovo cammino della chiesa e della storia. Anche se “Operarii autem pauci”, il missionario deve amare Cristo con il cuore di San Paolo Apostolo, facendo dell’ubbidienza, povertà, spirito di sacrificio, distacco dalla famiglia del sangue e umiltà, il respiro dell’anima e l’armatura irrinunciabile.
Non a caso Padre Vergara ci dice : “Noi missionari siamo come i soldati, pronti a cambiare luogo purché ci sia da lavorare per il Signore”. Quindi, “armati solo del Crocifisso”, devono per davvero “seminare di rosari gli oceani che attraversano”, per gettare le basi di chiese indigene atte a contribuire efficacemente ad estendere il Regno di Dio in tutta la terra:”tutta la Chiesa per tutto il Mondo”, diceva il Beato Manna. Questo conferma che il sacerdozio deve essere missionario per essenza e definizione, in quanto che, pur essendo un “granum frumenti”, deve dare la certezza di essere un germoglio perenne per la Chiesa e per il mondo. Ma soprattutto un modello di zelo apostolico da imitare.
In conclusione, il missionario non va in missione spinto da una teoria, ne è prigioniero di una terminologia, ma solo perché convinto da una dichiarazione d’amore: “Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi”, “Come il Padre ha mandato me, così anch’io mando voi”. È lo spirito di fede che anima l’evangelizzatore ad andare in tutto il mondo con la convinzione che “la fede non si discute sui banchi dell’università ma ai piedi dell’altare”, come scriveva Padre Vergara, il quale annotava pure che “il Signore crea gli uomini non perché abbiano ad occupare la terra, ma perché, imparandolo a conoscere nel poco tempo della loro esistenza terrena, Lo abbiano a godere per sempre in Cielo”.
Insomma ritorna, a riprova ulteriore della Comunione dei Santi, l’esortazione del Padre Manna, il quale in una delle sue lettere, raccolte da P. Ferdinando Germani nel volume “Virtù Apostoliche”, afferma che “tanto si è missionari quanto si è Santi”, per cui invita tutti ad essere Santi “grandi Santi”, perché “il missionario deve essere la virtù che predica la verità, a guisa di Gesù benedetto, che incominciò a fare e ad insegnare”! E poi “la Chiesa, diceva S. Giovanni Paolo II, ha bisogno di Santi”.
Quindi possiamo chiudere questa riflessione dicendo che i Santi evangelizzano, volendo significare che evangelizza efficacemente solo chi è Santo, perché soltanto la testimonianza di una vita donata al Vangelo vivente attrae a Cristo. Proprio come ci esorta Papa Francesco, il quale nella recente Enciclica “La Luce della Fede” conferma che essa è ravvivata dall’amore e che non si può ridurre ad un sentimento che va e viene, ma serve ad edificare un rapporto duraturo: l’amore mira all’unione con la persona amata e, cementato dalla verità, supera la prova del tempo per vivere una vita grande e piena, che porta frutto, solo affidandosi a Cristo, Signore del tempo.
Allora appare d’avvero appropriato quanto afferma il P. Germani, autore di una biografia del P. Vergara, il quale nell’ultimo libro “Due Santi Pontefici a Ducenta”, lo ricorda come “uno dei discepoli del Beato Manna che abbracciarono la morte a testimonianza della fede: ma soprattutto “come il missionario che ha desiderato ardentemente il martirio per la salvezza delle anime”.